Fast fashion
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Fast fashion: il reale costo della moda a basso prezzo

Cos’è la fast fashion

Letteralmente “moda veloce”. Se ne inizia a sentire parlare in maniera più insistente negli anni 2000, quando alcune aziende di abbigliamento passano da 2 collezioni all’anno a 52. Il modo di fare acquisti cambia definitivamente. A cambiare però, sono anche i tempi di produzione dei capi, che diventano fast: rapidissimi – e disumani.

Fast fashion: il reale costo della moda a basso prezzo

24 aprile 2013, Dacca. Crolla il Rana Plaza, un palazzo di 8 piani all’interno del quale hanno sede le produzioni di 5 diverse case di moda internazionali. 1129 persone persero la vita, oltre 2500 restarono ferite. Forse si iniziano ad aprire gli occhi su cosa sia davvero la fast fashion e sul reale costo della moda a basso prezzo.

I numeri

  • 0 = Lavoratori tessili che percepiscono un salario dignitoso
  • 11 = Milioni di tonnellate di rifiuti tessuti prodotte solo in Usa
  • 80 = Miliardi di nuovi capi acquistati ogni anno nel mondo
  • 2700 = Litri di acqua che servono per realizzare una tshirt

Fonte di questi numeri: DressTheChange (sito che vi consiglio di leggere attentamente).

Come siamo arrivati a questo?

Prima di tutto, dobbiamo farci una semplice domanda: “come fa un capo a costare così poco?”. Il basso costo di un prodotto deriva solitamente da scelte poco sostenibili.

Come è possibile?

  1. Si delocalizza la manodopera in Paesi in cui i diritti dei lavoratori – e quelli umani – rasentano lo zero. Si tratta molto spesso dei cosiddetti paesi in via di sviluppo, dove le leggi a tutela dei cittadini e dei lavoratori sono (quasi) inesistenti. Non solo: se questi diritti fondamentali sono inesistenti, come potranno esistere quelli ambientali?
    Non è un caso se spesso e volentieri si sente parlare di “schiavitù moderna” quando si parla dei lavoratori che producono i capi della fast fashion. 7,4 milioni di bambini in Bangladesh lavorano, il 60% delle donne in Cina lavora senza un regolare contratto – ad esempio.
  2. Quando parliamo di sfruttamento, non parliamo solo dello sfruttamento delle persone, ma anche di sfruttamento delle risorse naturali: dal suolo all’acqua.
  3. Molto spesso un capo viene prodotto in più stati, a seconda della fase della lavorazione: questo significa che tracciare ogni processo è praticamente impossibile.
  4. Non essendoci i diritti ambientali, nella maggior parte dei paesi in cui un capo viene prodotto, si usano sostanze altamente inquinanti ed estremamente difficili da smaltire. Spesso queste sostanze sono dannosissime per l’ambiente, ma non essendoci leggi a stabilirlo ognuno può fare quello che vuole.
  5. La quantità di rifiuti prodotta è impensabile. Pensiamo solo agli 11 milioni di tonnellate visti prima. Nel deserto di Atacama, in Cile, c’è la cosiddetta discarica a cielo aperto della fast fashion: ci sono infatti 39mila tonnellate di prodotti fast fashion. Un’altra cosa che mi ha sconvolta poi, è che molto spesso – anche i grandi brand – danneggiano di proposito i propri capi invenduti. Questo avviene principalmente per due motivi:
    Non vogliono che qualcun* possa recuperarli dalla pattumiera. Spesso si tratta di persone che quel brand non possono permetterselo e quindi rappresentano un enorme rischio per l’immagine del marchio.
    Per evitare di pagare le tasse: sull’invenduto si pagano, su ciò che è rotto o danneggiato no.
  6. L’inquinamento: dell’acqua (il 20% è causato dall’industria della moda), del suolo (1/4 dei pesticidi si usa per la coltivazione del cotone. In India ad esempio, le sostanze tossiche non sono vietate come in Unione Europea), dell’aria (le emissioni prodotte sono moltissime. Pensa che in questo la moda è il settore più inquinante dopo quello del petrolio, che è al primo posto).

Compriamo molto, valorizziamo poco

Il problema della fast fashion è che ha cambiato anche il modo in cui percepiamo un capo. Troppo spesso, visto il prezzo esiguo, non ci facciamo problemi a usare una maglietta solo un paio di volte e poi a buttarla per comprarne un’altra.
“Per quello che l’ho pagata”.

O ancora, molto spesso, siamo costrett* a buttare un capo dopo pochi lavaggi perché si è già rovinato. Molti oggetti oggi sono pensati per non durare a lungo, per essere sostituiti in fretta con qualcosa di più nuovo. Un po’ come succede con gli smartphone.

Fast fashion: comprare molto e valorizzare poco

La mia esperienza

Diario di una ex shopping addicted, o meglio, Zara addicted. Ecco come si chiamerebbe!
Fino a qualche anno fa ero ossessionata dalla fast fashion e soprattutto da Zara. Ogni collezione che usciva c’era qualcosa che mi piaceva – e che mi potevo permettere. E se per caso una settimana non c’era nulla “che mi serviva”, recuperavo quella dopo.

Comprare un vestito nuovo ogni settimana mi faceva stare bene: sempre all’ultima moda, sempre “un’occasione” che non potevo farmi sfuggire, sempre qualcosa di nuovo da sfoggiare. Sembrava quasi che volessi dimostrare qualcosa agli altri. In più, seguivo una marea di fashion influencer sui social che mi spingevano a comprare sempre un capo in più, che puntualmente mi mancava e senza il quale proprio non potevo stare. Il modo in cui normalizzavano l’avere un outfit diverso per ogni momento della giornata era un esempio da seguire per me.

Spesso e volentieri poi, dopo una giornata no, bastava un po’ di shopping – anche online – per tirarmi su. Peccato che quell’apparente benessere durava troppo poco. E quindi poi dovevo ricominciare se volevo “stare bene” di nuovo. Era un circolo vizioso. Sono cresciuta piena di vestiti, eppure non avevo mai niente da mettere. Per anni per il mio compleanno o per Natale chiedevo tessere di Zara.

Poi all’improvviso ho aperto gli occhi e ammetto di aver fatto un cambiamento abbastanza radicale. Ho smesso di comprare fast fashion e ho fatto un bel decluttering. Mi sono liberata di moltissimi capi, alcuni mai indossati. Prima di fare un nuovo acquisto ci pensavo parecchio: inizialmente pensavo che il costo più alto di un capo sostenibile mi limitasse dal comprare (e questo di base era un bene). In realtà mi sono accorta che non era più quello il primo fattore che guardavo. Finalmente avevo iniziato a guardare ai miei reali bisogni e non alle mode. Avevo capito che era più importante comprare un capo di un buon tessuto, resistente ai lavaggi e duraturo nel tempo.

Il prezzo è tuttora uno scoglio importante: so cosa posso permettermi e cosa no, e non me ne vergogno. Facendo però le giuste ricerche tra brand sostenibili e mercatini dell’usato riesco a trovare ciò che fa per me, anche se questo vuol dire fare dei “sacrifici” per permettermelo.

Ecco cosa ha aiutato me

  • Aspettare prima di fare un acquisto, evitando quindi acquisti impulsivi
  • Capire cosa mi piace e cosa mi fa stare bene. Se avete dubbi in merito, vi consiglio questo video di Cristina.
  • Fare decluttering: meno vestiti, più occasioni di sfruttarli, più ordine (anche mentale)
  • Togliere il follow a fashion influencer che ti spingono a comprare anziché valorizzare quello che hai. In più, non so te, ma a me sembrano tutte uguali alla fine
  • Cercare tra i mercatini dell’usato o app di vendita di capi di seconda mano
  • Disinstallare app di shopping – soprattutto di brand della Fast Fashion
  • Sfruttare al massimo i capi della fast fashion che già abbiamo, inutile buttarli a priori
  • Comprare capi basic e abbinabili in tanti contesti e occasioni
  • Comprare capi pensando già a diversi utilizzi
  • Cercare nell’armadio di mamma 🙂
  • Parlare dalla fast fashion con chi ne sa
  • Parlare della fast fashion con chi la conosce meno
  • Seguire green influencer che suggeriscono brand sostenibili e invitano all’acquisto consapevole, a me piace molto Silvia Stella
  • Parlare con i brand che mi piacciono per capire meglio la loro filosofia: i social hanno azzerato certe barriere, sfruttiamoli
  • Usare l’app Good On You per capire quanto è sostenibile un brand
  • Non vanificare i miei sforzi solo perché una volta ho ceduto a un acquisto della Fast Fashion
  • Informarmi sui tessuti: ho scoperto quante microplastiche vengono rilasciate in lavatrice – e quindi nei mari – dai capi sintetici o quanti litri di acqua servono per fare una maglietta in cotone. Ci sono anche tessuti che non sono biodegradabili e difficilmente sono riciclabili – come il poliestere ad esempio
  • Prediligo lo shopping “in presenza” per evitare resi. Secondo uno studio pubblicato da un’associazione di categoria di commercianti britannici, circa il 25% dei prodotti di abbigliamento acquistati online è stato restituito nel 2020.

Parliamone

E tu? Qual è il tuo rapporto con la fast fashion?

Ti aspetto su marta@gentilmenta.com

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